In Sicilia, una delle ricorrenze più significative dal punto di vista culturale e gastronomico è rappresentata dalla “festa di li morti” o semplicemente “li morti”. Le nuove generazioni la vivono e la sentono in maniera differente rispetto al passato, ma l’origine di questa commemorazione che mescola tradizioni pagane e culto cristiano si perde nella notte dei tempi. Infatti coincideva con le feste rituali agrarie e con il momento della semina: onorare la memoria dei morti era considerato fondamentale affinché il ciclo della vita potesse proseguire senza interferenze e interruzioni.
La tradizione custodisce tanti elementi che si sono tramandati per lunghi anni e altri dimenticati o trasformati nel mondo contemporaneo. In queste ultime settimane, ricorre prepotentemente il tema della zucca insieme a scheletri, streghe, mostri, pipistrelli, nello stile tipico di Halloween.
I racconti dei nostri nonni, dei nostri genitori e la letteratura ci offrono una fotografia d’epoca in cui i protagonisti sono valori semplici e genuini. Lo scrittore empedoclino Andea Camilleri, ammise il triste e progressivo tramonto della festa dei morti contemporaneamente con l’arrivo degli americani e delle loro tradizioni nel 1943.
Oggi è sempre più inconsueto portare i bambini al cimitero per regalare fiori e ricordare chi ci ha preceduti, chi ha creato le condizioni affinché noi venissimo al mondo, chi ha fondato le nostre famiglie, la nostra gente e il nostro paese. Tuttavia non tutto è perduto e al momento proprio la tradizione gastronomica rimane un segno di resistenza.
Bisognerebbe fare una profonda riflessione, se non vogliamo perdere il nostro immenso tesoro culturale per recuperare le nostre origini, preservandole e valorizzandole. La perdita della consapevolezza di chi siamo ci renderà ancora più poveri, orfani della nostra memoria.
A Sciacca, si racconta che nella notte tra l’1 e il 2 novembre, i cari defunti ritornino in città ( i motti arrivaru a potta Palemmu…) portando dolci e giocattoli ai picciriddi e nascondendoli in giro per casa, dandosi così inizio, al mattino, a una vera e propria caccia al tesoro tra i profumi tipici della festa.
In passato si usava anche lo scambio di lu cannistru tra parenti, fidanzati e congiunti.
Una filastrocca fanciullesca recitava:
“Armi santi, armi santi (anime sante)
Io sugnu unu e vuatri siti tanti: ( io sono uno e Voi siete tante)
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai (mentre sono in questo mondo di guai)
Cosi di morti mittitiminni assai“(Regali dei morti mettetemene molti)
I dolci tipici siciliani per il Giorno dei morti sono: i Pupa di zucchero o Pupaccena,
le ossa di morto,
la frutta martorana,
i biscotti della tradizione: come i taralli, aromatizzati al limone e ricoperti di glassa di zucchero
i Mustazzoli al vino cotto
e le Reginelle, entrambi ricoperti da semi di sesamo.
Per concludere, il ricordo da bambino di Camilleri tratto da “Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I racconti quotidiani di Andrea Camilleri
“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari.
Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.”
Brava, sono d’accordo con te!!!!
A Palermo si organizza, ormai da diversi anni la “Notte di zucchero”, per grandi e bambini, con spettacoli teatrali, musicali e di danza, con l’obiettivo di salvaguardare la “festa dei morti”