di Greta Primavera (sul Corriere della Sera)

Adam è l’unico figlio sopravvissuto al bombardamento israeliano che il 23 maggio scorso ha sbriciolato la loro casa di Khan Younis. Dice la pediatra: «La sola cosa che lo fa sorridere è l’idea di venire in Italia»
Risponde lei al telefono. Non lo ha mai fatto in queste due settimane. La voce non trema più. Piangerà, vien da pensare. A questa domanda non risponderà. E invece no. Alaa al-Najjar è risorta. All’inferno, certo, ma è risorta. Parla ancora con il Corriere ma questa volta senza l’aiuto della sua famiglia. Con precisione e lucidità, la pediatra di Gaza sceglie parole che non lasciano scampo alle coscienze. Non hanno rabbia, né veleno. «Salam aleikum», si sente dire in lontananza. È la voce di un bambino. È quella di suo figlio Adam, 11 anni, l’unico dei dieci che ha partorito a essere sopravvissuto al bombardamento israeliano che il 23 maggio scorso ha sbriciolato la loro casa di Khan Younis. Solo cinque giorni fa è morto anche il marito Hamdi, collega e «amore della sua vita», dice lei. Alaa non poteva che risorgere «per Adam, che ha solo me», spiega. Hanno la valigia pronta per venire in Italia.
Come sta Adam?
«Sta migliorando, non è più in terapia intensiva ma in reparto. Sono qui con lui, accanto al suo letto. Non lo lascio mai».
Sa della morte dei suoi fratelli e di suo padre?
«Da cinque giorni. Ho deciso di raccontargli che cosa è successo alla nostra famiglia solo domenica, quando anche mio marito Hamdi ci ha lasciati. È durissima. Cerco di non fargli pensare a come è diventata la nostra vita. Giochiamo il più possibile. In ospedale ha un tablet e dei colori. Anche i miei nipoti vengono a trovarlo. L’unica cosa che lo fa sorridere è l’idea di venire in Italia. Il mio obiettivo è portarlo fuori da Gaza, se potessimo davvero uscire sarebbe un sollievo. Adam ha bisogno di essere curato in una struttura che funziona».
Quali sono le sue condizioni di salute?
«Deve subire un intervento per la ricostruzione di alcune ossa del braccio sinistro e di alcuni nervi: nella Striscia non c’è nessun ospedale dove si possa affrontare un’operazione del genere. Noi siamo pronti, stiamo aspettando la chiamata delle autorità. Ci hanno detto che si parla dell’11 giugno ma nulla è certo. Io rimango fiduciosa».
Lei come sta?
«Mi sono affidata ad Allah, non saprei come fare se no. Quello che ci è successo è così enorme che l’unica soluzione è pensare che ci sia un disegno più grande. Ma non scrivete di me come una madre eroica, sono una mamma come tante altre qui, senza più niente. Questo è il mio destino ed è il destino di troppe persone a Gaza. La mia è una storia terribile, ma comune. Non dimenticate gli altri».
È arrabbiata?
«Non lo sono. Provo dolore, ma non rabbia. Sono grata a tutti coloro che denunciano la devastazione che viviamo, e sono triste per quelle persone senza umanità che accettano tutto questo male. Quando cado nella disperazione mi dico che i miei bambini almeno sono in un posto migliore di Gaza. Di sicuro sono finiti in paradiso».
Che cosa ricorda di quel 23 maggio?
«Prima di andare al lavoro, al Nasser, li ho visti tutti, ho detto loro “ci vediamo dopo”. Poi sono corsa davanti alla montagna di macerie che era diventata la nostra casa e i miei bellissimi figli, bambini amatissimi, erano pezzi di carbone senza più volti, né corpi. Non potevo immaginare che questo sarebbe stato il nostro destino».
Anche se lei e suo marito, come medici del Nasser, avete visto il peggio della guerra.
«Sì, sotto questo cielo abbiamo sempre avuto paura, ma l’amore e la voglia di vivere ti fanno pensare che non toccherà a te».
Chi era Hamdi?
«Era l’uomo della mia vita. Eravamo una cosa sola, ci siamo sempre aiutati in tutto. Mi manca ogni istante. Vorrei che con me e Adam in Italia venissero anche sua sorella Nasual, suo marito e loro figlio. Mia sorella e i miei quattro nipoti non possono più. Nasual è un po’ Hamdi, per me».